I collect your stories,
stones for my pockets
to hold me down
when the root goes
Karen Press
Ai miei genitori,
al debito non pagato
Il nome
Il tuo nome fai fatica a starci dentro.
Vedi la mezza luna quasi piena
della lettera con cui comincia:
ti illudi di riposarci la schiena
tanto è rotonda e morbida la sua promessa.
Invece è la consonante
inopportuna di Come? Cosa?
Quando senti pronunciare il tuo nome
riconosci dall’abbrivio spaventoso
l’invito della guardia di confine
a dichiararle qualcosa.
Giusto il tuo nome;
l’espressione eretica delle impiegate
che se lo passano rimpicciolito
di bocca in bocca per credere a una parola.
Ti scrutano in agguato tra le ciglia
ti chiedono di esibire le prove
della tua inconsistenza terrena.
Le prove sigillate nel nome.
Non ci stai dentro tutto nel tuo nome:
spunta sempre un pezzetto
un piede che dondola dal bordo
ma non è un’amàca non ci puoi stare comodo
rimanere in silenzio farti aspettare:
è un punteruolo per entrarti nel fianco
grattare la vernice - la chiamano così -
dell’essere-apparire
raschiare quel po’ di colore
che somiglia a un sorriso
ed è un suono di due sillabe
che dà il via allo scavo:
chi ti chiama per nome
vuole impararti saperti controvoglia
occuparti un centimetro alla volta
o peggio tutto insieme da radice a radice
da quella dei capelli a quella dei respiri.
Chi ti nomina ti ribalta
senza chiederti il permesso
e tu speri che il tuo nome
ti nasconda in un cappuccio
a quelli che hai davanti
e intorno tutti con lo stesso nome
diverso dal tuo così disabitato
che suona come quello di un indiano pellerossa
(sai gli uomini che si accigliano e sono nuvole
o fanno la guerra e sono lampi notturni
o falconi insonni: il nome personale
a ciascuno il suo
fatto di un pane che non si condivide.)
Ti capita di morire
e allora il nome ti si scioglie addosso
sbrilluccica come un barattolo
legato alla marmitta di un’auto senza sposo
e tu rimani lì da dove sei partito.
Lo incidono sul legno sulla targa
che illumina il tuo vuoto
e tu dall’uovo in cui sei rientrato
con l’anima mischiata alle frattaglie
da dietro al guscio in cui te ne stai composto
nel tuo corpo nuovo
con le tue unghie liquide
non riesci a cancellarlo.
Il nome che continua a schiarirsi la voce
sotto la luna e sotto il sole
anche se ti ha dimenticato.
Appendice al discorso del nome
C’è anche il nome che credi di abitare
finché non lo senti uscire da una bocca
sformato dalla pronuncia chiara
confusa cambia poco: non rispondi
(ce l’hanno con tuo cugino portatore disinvolto
del nome nonnesco di seconda mano?).
Il nome illusorio numerato soffio di una voce
che non riconosci si rivoltola
con te nei sogni voce di sabbia
che ti chiede un bacio tu non puoi rispondere.
Non è lo stesso nome detto
tre volte da chi sta morendo prima di te
tuo padre che ti chiama e ti dice
parole misteriose non ne capisci una:
non sai se le strascica la luce intatta
del desiderio di portarti a Parigi
le carezze sconosciute del mondo
un rimprovero l’ultimo
un po’ più rumoroso allegro
come il corpo che impara a non esserci.
Ogni tanto le riascolti
per indovinare il senso del discorso
ma il nome che ti ha dato tuo padre
un regalo sbagliato un’impronta sulla faccia
è l’unica condanna che comprendi.
Piccole manovre dell’abbandono
Le prime a cadere sono state le piante
non per volontà del tempo o del destino
ma del finto giardiniere
che le aveva ficcate nella terra.
Messe lì per dominare sulla voragine
del cortile erano ridicole: uno sbuffo verde
intorno al grigio su quattro righe di terra
macilenta quattro aiuole fallite
con un po’ di impegno tombe di passeri
neanche i vermi ci dormivano comodi.
Affacciate sull’asfalto in coda alle automobili
parevano sfottere non si sa cosa:
la natura la tecnica l’arte dell’equilibrio.
Ma erano piante vere con la linfa e foglie
che cadevano davvero e rinnovavano
il cerchio dell’esistenza i suoi disegni,
trattandosi di alberi, sempre concentrici.
Gli uccelli che ci stavano al riparo
erano veri uccelli con le piume e il becco
e anche le cicale d’estate facevano
le loro pernacchie ascellari che sentivi
fino allo sconquasso del cuore
nel sonno pomeridiano.
Le piante avevano radici che spaccavano
l’asfalto: formavano crepe sulla superficie
come quelle sulla crosta del pane.
Perciò decisero di abbatterle
le piccole e le grandi:
il pino di tredici metri
e la pianta di rose aggrappata al cancello
(ogni tanto una mano giallastra
ne prendeva una per portarla in chiesa
e io che non sapevo i nomi dei fiori
odiavo quella mano perché
sporcava la morte delle rose o così credevo).
Ma quella pianta forse era già marcita
in un fosso prima del massacro.
Poi è stata la volta degli animali
gli occhi notturni della casa:
una bastardina ermafrodita
mezza chihuahua mezza tina pica
un’idea storta a forma di cane.
Abbaiava per dimostrare al mondo
di non essere un’invenzione messicana
ma con un’ottava più alta incarognita
che pensavi ai rimproveri ululati
dalla nonna catarrosa
ubriaca di vino e acqua a cui il nipote rubava i giocattoli.
Aveva tanto coraggio quella nonna-cane
finché ti restava in braccio e da lì
sfidava gli eserciti e i camorristi
e che schifo aveva dei suoi simili
cani senza rimedio e del sesso
miserabile che le offrivano.
Femmina disponibile e cialtrona
nel tête-à-tête col cibo
l’unico maschio che non la spaventasse.
Vederla morire nell’agonia di una notte
la traccia sempre più debole del fiato
che le increspava il labbro sopra il dente
a fondo nella paralisi degli occhi
sbarrati dalla sorpresa Dio cane sto morendo –
fu quasi un allenamento alle altre veglie.
E una coppia di gatti vissuti more uxorio
(tradendosi il giusto da buoni borghesi).
Lui con la faccia napoletana
scavata sotto gli zigomi i lineamenti mobili
del comico: ci leggevi la gioia l’angoscia
la noia del niente di nuovo nel deserto.
Mai visto prima un gatto così trasparente
così impoetico.
Lei gonfia come un enorme bignè tigrato
per via di un’operazione:
lei gatta-moglie-madre lui gatto-ragazzo
in pantofole con poche opinioni
e nessun segreto. Lui morì per primo
lei tre mesi dopo schiantata dal lutto
come Giulietta e Sandra.
I gatti ti insegnano a morire:
basta guardarli scherzare sullo sprofondo
abbuffarsi e fare debiti l’ultimo giorno
seguire la curva fino all’impatto
col moralista che arriva contromano.
Infine è toccato agli uomini:
quello che aveva piantato
gli alberi e le rose il finto giardiniere
competente almeno una volta
chi aveva allattato i figli dei gatti
e portato a spasso il cane sgorbio ermafrodito
il sesso che chiedeva l’ultima confidenza
della lingua il corpo sgonfiato del padre
senza rifugio tra le lenzuola bianche oscene
il ventre della madre posata su un tavolaccio
e anche lì in quelle morti tanto umane
non ci vedevi la volontà del tempo
e del destino ma un’altra che non era
quella che strappava le rose
e neanche quella sottintesa di Dio
nessun distacco nessuna morale
nessun commiato nessuna pace
nemmeno una schiuma di eternità
solo un contraddirsi per sparire meglio
di tutto ciò che nasce e fa rumore:
uomini animali piante
occhi bocche parole versi
e la loro maldestra inclinazione all’assenza.
Allinearsi
Il momento in cui col pretesto
delle cose che prendono forma
tutto segue una linea imprecisa:
lo sguardo di chi ti odia uccide il tuo vicino
il bla bla dei corpi stesi al sole
ha la trasparenza delle meduse
i ricordi delle meduse parlano
di rivoluzioni finite sulla spiaggia
il rossetto deraglia oltre il solco delle labbra
il bacio lo segue e sbaglia strada anche lui
il tacco si spezza sulla passerella
e non succede altro solo un inconveniente
l’andare che si inceppa nessun effetto comico
il prete consacra l’ostia e pensa a sua madre
la madre che non sa il francese dice al figlio
j’ai prié pour toi il figlio sospetta
che il dottor Stevenson abbia ragione
quando parla di ferite del corpo
che emigrano con l’anima
ma non può verificarlo perché
il dottore è morto prima di sua madre
un pensiero impreciso come tutto il resto.
Geometria delle coincidenze
Abitano sulla stessa scala
del palazzo di un rione quasi borghese
un’enclave di dialetti terroni
incolonnati come vertebre
nella carne dello stare al mondo.
Si ignorano come tutti i vicini di casa:
se tra loro c’è una fraternità
è sempre al di qua della simpatia
del fastidio di salutarsi
è la natura che li lega
a un invisibile filo di sangue.
Le marionette di carta che si aprono
come frasi identiche
non hanno sguardi meno bianchi
delle loro fantasie -
il paragone è facile non gli piacerebbe.
Al primo piano un uomo di quarant’anni
una madre spagnola un padre autarchico
che gli fa la spesa e ogni tanto piange
se lo vede ubriaco quel figlio
allevato in cortile diventato pazzo
per avere scambiato il no di una donna
col do delle trombe del giudizio. Capita.
La ragazza che gli fa eco al secondo piano
insulta sua madre vorrebbe sparire
per non somigliarle diventando vecchia
coi capelli ingrommati di tinta
l’alito degli alveoli vuoti
ma ogni sera le chiede il favore
di rimboccarle le coperte.
Al terzo piano c’è un professore
di cucito e di economia.
Ha spesso due macchie nelle mutande
quella davanti è la sua preferita.
Spia l’oltremondo con il telescopio
mentre impara la lezione del giorno
che ripete nel suo nascondiglio.
Pensa alle notti degli innamorati:
gli basterebbe un posto
nelle fessure dei loro sguardi
e nelle altre di cui si vergogna.
Indovina le traiettorie
dei baci e delle carezze.
L’infermiere del quarto piano
sa fare punture di precisione
sotto le unghie dei piedi.
Mette la divisa del fratello
che abita di fronte e gli presta gli aghi
e anche i pensieri che lo accoltellano
non sono suoi ma gli guastano il sonno.
La vedova che sta al quinto piano
crede che le abbiano fatto il malocchio
che il diavolo sorrida dentro il cognato
podista dilettante che voleva sposarla.
Il giorno che il cuore gli scoppiò
durante una gara che arrivava a Faenza
rimase a terra col suo amore cattivo.
Lei non versò una lacrima
che non avrebbe versato
per un povero cristo senza nome.
A chi non capiva la sua indifferenza
rispondeva che tutto ha un significato:
ricordare un nome come dimenticarlo
accarezzare un volto come graffiarlo.
Dio non è un impresario del baratto
e per questo avrebbe pregato.
Vivono tutti sulla stessa scala
si confondono con gli altri pazzi
ma non vogliono incuriosirti:
non scrivono versi non dipingono
indossando sottane per sentire
un respiro vinoso nel corpo.
Non eccitano la retorica
del genio imbottigliato nel delirio.
Non testimoniano il disordine del mondo
e neanche il loro.
Gli anatomisti dello stupore
i bravi a sorprendersi i commossi
non saprebbero cosa farsene
di un caos così inconcludente
che rifiuta la poesia e la prosa.
Consulenti
Le ottantenni che arrancano col carrello
della spesa e si arrampicano sui marciapiedi
con l’anima aggrappata al fiato
che le zavorra al piano orbitale
un telecomando che le trascina
dalla casa al mercato dal mercato alla casa
sembrano sgretolarsi a ogni colpo dei tacchi
sul basolato scelto dal sindaco.
Dici ecco ora cascano e si sfarinano
senza un lamento o fanno in tempo
a invocare la Madonna come mio nonno
trafitto da un ferro da materasso.
Ma lui era un ragazzo e poteva morire.
Loro invece no non moriranno
lo hanno giurato chiudendo la porta
prima di uscire all’avventura
tra occhiate e insulti sparati a salve
da figlientrocchia di tredici anni.
Se per sbaglio gli passi accanto
ti danno consigli sugli investimenti
la crisi economica è un trucco di Giuda
per portare al governo i falsi invalidi
la psicologia è roba da scemi
col sesso avvizzito tra le cosce
ascolta loro che sanno a memoria
le parole che bruciano il petto ai giovani
come te nati per la guerra che si combatte
nei condomini spaventosi di silenzi
e di abbai nel veleno delle anticamere
degli uffici ministeriali. O sei forse disoccupato?
Non credere ai venditori di tappeti a reazione
a meno che non facciano buoni prezzi:
quello che hanno comprato il mese scorso
non si alzava più di un metro da terra
e poi ricadeva nella polvere.
Dai retta a loro che hanno vissuto
quasi un secolo quello passato
rotolato a valle con le ossa dei martiri
e dei mendicanti le frasi mischiate
di oro e merda che uccidono i giudici
più del tritolo - lo ha scritto un giornale
non ricordano il nome.
Le ascolti nei loro salmi furiosi
che chiedono di reggersi al tuo braccio
le ascolti le detesti perché sono nate
prima del ’49 l’anno di tua madre
che non dava consigli lungo la strada
per evitare lo sporco dei cani
non portava mai il carrello appresso
ed è finita dentro una buca
nella voragine di una stregoneria
succhiata giù da un magnete di cristallo.
Non fai in tempo a dire alle vecchie
che non ti chiamino più ragazzo ché hai
i tuoi anni e molti li hai chiesti a Dio
per non imboccare la strada del sole
intanto quelle lasciano la muta
delle lucertole ringiovaniscono
all’improvviso sgusciano via rapidissime
si risposeranno torneranno vedove
chissà dove in quale universo.
Lì accanto a te resta appena un’orma
sul pavimento una pozzanghera
di giudizi scontati sdentati immortali
come un raccapriccio che insanguina l’erba.
Il lato destro dell’armadio
Nessuna devozione per gli oggetti
che non ci appartengono più
la memoria sta in piedi da sola.
Bisogna alleggerire lo scomparto
del marito onorare la vedovanza
cancellando le impronte superflue
coi segni dei polpastrelli e il sudore
nelle scarpe. Butterà le giacche
e le grucce-imitazioni di clavicole.
Non soffiare via la forfora dal pettine
è ridicolo come il pensiero
delle mani nei guanti.
Si accorge che le immagini svaporano:
conserverà le fotografie.
Inizia a parlare con un volto
si vergogna: quei ritratti disonesti
nella loro confidenza
gli occhi del marito
in posa per il fotografo
scheggiano appena il vetro.
La memoria sta in piedi da sola
nella foto è lei a farsi da parte.
Contrordine
Una casa si svuota
le città dentro la casa si svuotano.
Non ci sono madri né padri
né figli di mezza età da allevare.
Chi ha rimodellato le loro cellule altrove?
Gli oggetti inutili resistono
fanno il loro dovere si rompono
gli arnesi fatti per non essere usati,
ogni pezzo si separa dal suo alloggiamento.
Sentire lo strazio di un pomello
che si stacca dalla specchiera:
è la protesta del suo cuore fermo.
Protesta anche tu mangia la mollica
non separarla dalla crosta.
Disobbedienza
Sai che dorme senza cuscino
in quel suo modo di avere ragione
e immagini che sia possibile
mettere pace tra sonno e risveglio
allenare il battito come fa lui
per alzarsi presto e camminare
venti chilometri sulla punta dei piedi
fino all’acqua delle caldane.[1]
Aspetta fuori dalla chiesa
che la messa finisca in un congedo
militaresco sciogliete le file
per lui un altare somiglia a un altare
un affresco è un dazebao di colori.
Può credere alla balbuzie di una predica
e all’amnesia di chi la pronuncia
non chiedergli anche di credere in Dio.
Il tempo del lavoro e poi il riposo
la noia balsamica delle ore
l’abitudine a non contraddirsi.
Un pomeriggio è entrato in chiesa
in una luce fiacca: i fiori erano freschi
il volto di una donna appassiva.
Voleva salutarla; è entrato in chiesa
con il pudore dell’ospite che non sporca
un bicchiere ha ascoltato parole
che lo molestavano non le condivideva
ma le ha ascoltate sgranando le sillabe
ha mescolato il suo amen con quello dei credenti.
Paura dei consolatori
Oscura gli specchi si arrotola
come una stuoia sotto il letto
perché non lo trovino ma qualcuno
sente l’odore del sonno e del fiato.
Passa una mano di grigio
sulla sua ombra per coprirla ma
qualcuno lo chiama perché lo ha visto
svoltare l’angolo avvolto nel cellophane.
Si preme a fondo nel portaombrelli: non respira.
Non può nascondersi neanche la notte:
un rumore lo stana dal suo vizio.
Arrivano i comici malati di Alzheimer
vogliono divertirlo ripetono
i loro atroci scioglilingua
(se almeno li ricordassero).
Lui gli rinfaccia i loro fallimenti
per azzittirli ma non ci riesce:
gli spiaccicano la morale sul muso
gli fanno il solletico sulla pancia
gli mettono le mani nelle mutande
lo costringono ad ammettere i suoi torti.
Vogliono farlo ridere alle sue spalle
inutile spegnere il televisore
i loro gesti scivolano lungo i muri
vogliono consolarlo.
Réclame
La vetrina delle pompe funebri
più sorridente di una salumeria
così invitante di buon gusto
nello starsene appartata in un vicolo.
Non si sporca mai con il baccano
della concorrenza e i suoi necrologi
pieni di refusi spudorati.
Il titolare truccato da amico
dei vivi decanta la perfezione
delle rose disegnate sul legno
le innaffia con lo sguardo:
Sono belle, vero? Sì, sono belle
puoi sentirne il calore
le radici che crescono nel tuo naso.
Reading
Il poeta colombiano fissato
con il senso letterale legge
poesie affollate di colombi.
Nei suoi versi i colombi non si contano
e tutti fingono di cercare briciole.
Tu da fanatico delle allegorie
ci vedi dentro una storia di simboli -
gli albatri e i gabbiani e i corvi eccetera.
Alzi il dito per fare una domanda.
In quell’istante il poeta allunga
un braccio: dalla manica slargata
esce una nuvola di colombi
domestici selvatici colombe
degradate a piccioni colombacci
con gli occhi plastificati
da chirurghi in pensione.
Sbuca una tortora in libera uscita.
L’uccellame invade la stanza gira
intorno alle sedie fa finta di cercare
briciole. Speri nel gioco di un regista
inglese ma riconosci subito
la coppia di piccioni cresciuti
dai tuoi genitori: appena il tempo
di impararne la lingua
hai visto tua madre che li spennava
per il pranzo della domenica.
Riconosci il piccione che tuo padre
teneva legato a un guinzaglio
per guardarlo passeggiare
dentro il cortile dal balcone.
Cosa rendeva sacro quel volatile
rispetto agli altri cucinati
con disinvoltura a parte il fatto
che non sapeva volare?
Pensi al ruolo oscuro dei piccioni
nella tua esistenza quando il poeta
con enfasi latinoamericana
disegna un cerchio nell’aria.
La nuvola rientra in volo
nella manica. Il poeta si scusa
non voleva spaventare nessuno.
Ribadisce che le sue poesie
parlano di colombi e di piccioni
chi pensa ad altro si sbaglia.
Qualcuno applaude poco convinto
un altro resta in silenzio tu sospetti
che quell’incursione di piume sbatacchiate
nasconda una specie di sotto-testo.
Il poeta si scusa per lo spavento
e per qualche beccata alle mani.
Il viaggio transoceanico
avrà scosso gli animali.
Succede anche agli uomini:
la digestione si affatica i nervi
si attorcigliano e l’arrivo
non è mai un approdo.
Pensava di mandare avanti
gli uccelli in volo autonomo
e poi raggiungerli in aereo:
li ha sopravvalutati
gli piace volare da passeggeri.
Chiede un favore prima di andarsene:
aveva detto che sarebbe venuto
anche solo per un piatto di ceci.
Era sincero ma nel cuore sperava
di non essere preso alla lettera
almeno una volta: gli basterebbero
i soldi per il ritorno dei piccioni.
Promemoria del poeta colombiano
Maledette le metafore e le similitudini
maledetto chi me le ha soffiate
nell’orecchio da bambino.
Maledetti i gigli e la loro bianchezza
che nessuno schizzo di liquame
può macchiare. Avevo otto anni
una mia compagna di scuola
più bruna di me aveva fatto
una poesia: paragonava l’anima
di Gesù Cristo a un giglio purissimo.
Giuro quella metafora scialba
ha cominciato a lavorarmi dentro
fibra dopo fibra, tèndine dopo tèndine
mi ha aperto uno squarcio di invidia
inimmaginabile. In una settimana
ho riempito sei quaderni
di poesie religiose: non ce n’era una
che fosse un po’ meno scialba.
Chi ti rovina è la maestra che ti ascolta
e ti chiede di “coltivare il dono”
che nessuno ti ha dato. Poi sigilla
il giudizio con la firma sulla pagella
perché qualcuno ci creda davvero
che sei un poeta alto un metro e trentotto.
Per nove minuti ci hai creduto anche tu.
Da qualche anno vado in giro
a leggere i miei versi: suonano
sempre fragili e ammaccati.
Li nascondo dietro un arabesco
spettacoli di magia prevedibili.
Provo a distrarre gli sguardi.
La mia è un’ossessione stanca
che toglie il sonno e non dà niente in cambio
è un privilegio da accattoni
ma continuo a cercare un giglio impuro tra i sassi.
L’artista del sonno
Non riesci a ringraziarlo
per i suoi insegnamenti: sta dormendo.
Ti aveva detto che per coerenza
avrebbe dormito anche allora.
Si è presentato la prima volta nella
tua stanza quando il tuo corpo era già
d’accordo: eri disteso sul letto sfioravi
un libro la mezza intenzione di aprirlo.
Quel giorno aveva il volto di tua madre.
Ti ha detto accarezzandoti la testa:
Ci siamo quasi. Adesso chiudi gli occhi.
Spengo la luce attutisco i rumori.
Vedi ho le babbucce ai piedi.
Vuole starti vicino cambia forma:
a scuola: professore di educazione fisica
sulla strada: ragazza in vestaglia azzurra
dal dottore: dottore che annuisce.
Ieri sonnecchiava nella vena
arrampicata sulla tua gamba.
Se ti confidi con lui ti guarda
incuriosito sorridendo non può
guardare ti accorgi che indossa
due occhi finti sempre spalancati.
Gli chiedi di accompagnarti al parco
accetta volentieri: devi solo
portarlo sulle spalle e posarlo
delicatamente su una panchina.
Puoi rimanergli accanto non parlare
se vuoi ascoltare l’ultima lezione
non svegliarlo.
[1] Le Caldane sono bagni termali di origine etrusca, nei pressi di Colle di Val d’Elsa (SI). Quello che ne resta, dopo che distruzioni e discutibili ricostruzioni ne hanno cancellato la forma iniziale. Mio zio, toscanissimo e marxista, ci sogna il mare d’estate.